mercoledì 16 ottobre 2019

La danza ai tempi di youtube





E’ il 2007 quando la versione italiana di Youtube fa la sua comparsa, uno strumento nuovo, incredibile, che permette alle persone di condividere video. Un nuovo strumento che ben presto rivela infinite potenzialità: l’opportunità di farsi conoscere a livello mondiale, di mostrare le proprie capacità, la propria arte, le proprie idee. Una vera e propria rivoluzione, che ci ha regalato artisti, conoscenze e, apparentemente, infinite possibilità.
Ma è davvero tutto oro quello che luccica? 
Quali cambiamenti ha portato Youtube nel mondo della danza orientale? 
Sicuramente uno dei grandi pregi di Youtube è l’aver permesso ad un grande pubblico di accedere a video che testimoniano e presentano le danzatrici che hanno fatto la storia della danza  orientale, di avere un pressoché infinito campo di ricerca sulla danza orientale, di aver reso popolari e apprezzate artiste e artisti che altrimenti sarebbero rimasti “relegati” nella propria zona geografica. D’altro canto però Youtube, proprio per il suo carattere “popolare” e “senza filtri” permette a chiunque di pubblicare video, tutorial, performance e quant’altro a prescindere dalla competenza, formazione, e/o capacità. 
Proprio l’altro giorno in un gruppo dedicato alla danza orientale di cui faccio parte su Facebook (altro Giano bifronte) è emersa una questione strettamente legata alla danza in video, contrapposta alla danza dal vivo. Molti hanno condiviso i propri punti di vista, e ciò che è emerso è che spesso, per la danza, ciò che funziona in video non sempre ha lo stesso impatto dal vivo, e viceversa, insomma non sempre i video rispecchiano e riproducono fedelmente la realtà, specialmente in un’arte “istantanea” come la danza.
Cosa c’è di male in tutto ciò? Nulla, apparentemente, se si parte dalla premessa che il pubblico di Youtube sia un pubblico informato e capace di distinzioni, un pubblico REALE, (ma così non è), e che ciò che viene condiviso sia qualcosa che porti miglioramenti, contributi di valore alla danza. Spesso ci dimentichiamo che Youtube, Facebook, instagram etc. sono mondi virtuali in cui ciò che sembra spontaneo, reale e vero è invece un mondo costruito, pensato e creato apposta per apparire naturale e reale, il cui scopo è catturare lo spettatore, la qualità non sempre è il punto di partenza.
Confesso che, non essendo nata in questo mondo virtuale, il mio approccio ad esso e a ciò che produce è spesso disincantato, se non cinico. Ciò che mi inquieta di più è che sempre più spesso sembra che ciò che conti non sia essere competenti, ma piuttosto essere visibili, cioè presenti in modo consistente nel web, sui social, insomma fare in modo che il pubblico non si dimentichi di noi, una sorta di versione mediatica del famoso detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” che già non è poi così vero nella realtà “reale”. 
Così “condividere” è diventata ormai la parola chiave, ma condividere cosa? Le nostre attività? la nostra “filosofia”? Il nostro prodotto-danza? La nostra immagine pubblica? Chi siamo? 
Quello che mi chiedo è: davvero questa sovraesposizione ha portato dei “vantaggi” al mondo della danza orientale? O stiamo rischiando di trasformare un’esperienza reale in un surrogato virtuale che non permette di approfondire, ma ci da solo l’illusione di poter un giorno anche noi, attingere ai nostri 10 minuti di notorietà?

venerdì 27 settembre 2019

La Scuola Salimpour: non è ciò che pensi.


La Scuola Salimpour: non è ciò che pensi.
Traduzione dell’articolo di Abygail Keyes “The Salimpour School: is not what you think” 

La Scuola Salimpour esiste da molto tempo. Di fatto dal 1949. Durante questo periodo abbiamo dato vita a molta storia, formato molti danzatori/danzatrici, e … ispirato molte chiacchiere, mezze verità e veri e propri malintesi.

Davvero la fuori ci sono molti, ehm, punti di vista interessanti riguardo la Scuola Salimpour: chi siamo, cosa facciamo e cosa insegniamo. Io ho studiato (in questa scuola) per più di dieci anni, e non spenderei migliaia di dollari e ore per un programma in cui non credo, con un mentore che non creda in me, e che non abbia una vita di esperienza e conoscenza.

Grazie ad un fenomeno cognitivo chiamato “Anchoring” è difficile cambiare la prima impressione che si ha di qualcosa: una persona, un posto, un’istituzione. Il nostro cervello effettivamente è influenzato dalla prima cosa che sentiamo, a prescindere dal fatto che, più tardi, sentiremo informazioni più vere o più affidabili, che contrastano con le prime. 

Quindi, se tu non fai parte della scuola, o hai appena iniziato il tuo percorso di certificazione, ecco le 5 cose più importanti riguardo la scuola che io (e noi) vorremmo tu sapessi. Pregiudizio “Anchoring” o no.

1) In realtà siamo molto simpatiche.
Qualsiasi istituzione che incoraggi il duro lavoro, la competenza e l’eccellenza rischia di essere etichettata come “snob” “elitaria” ed “arrogante”. Basta guardare quante persone guardino alle università della Ivy League o ai loro professori come a “torri d’avorio”. Grazie a qualcosa chiamato “negativity bias” sarà più probabile che tu tenda a ricordare le cose negative che senti riguardo un’organizzazione, istituzione o persona, che alle cose positive. Grazie, cervello.

Tuttavia negli ultimi tre anni quando abbiamo tenuto i nostri “summer intensive” l’amore in sala è stato palpabile.

Le danzatrici e i danzatori, a prescindere dal livello di certificazione, sono sempre stati di supporto, generosi e umili. Non ho sentito un insulto, un commento cattivo o il tentativo di mortificare l’altro. Quando le danzatrici e i danzatori tornano alla “Mothership” per formarsi, non stanno solo lavorando sulla propria danza, stanno anche contribuendo a costruire una comunità mondiale.

Personalmente in qualità di istruttrice, io faccio sempre uno sforzo - nonostante il mio sentirmi impacciata, i miei passi falsi sociali e la mia generale tendenza ad essere una “professoressa persa nei miei pensieri” - per far sì che ogni uno si senta benvenuto, indipendentemente dalla sua abilità o esperienza. So che la mia collega istruttrice Parya fa lo stesso. Suhaila ha creato la sua scuola perché fosse uno spazio sicuro per le danzatrici/danzatori dove imparare, crescere e allenarsi.

La sala di danza dovrebbe sempre essere un posto dove gli studenti possano sperimentare, fare errori ed essere vulnerabili. In effetti la vulnerabilità è un elemento chiave in ciò che impariamo nel Suhaila Format Level 3. Se non riusciamo ad essere aperti e a fidarci dei nostri corpi, come possiamo lasciare che la musica ci ispiri o ci guidi?

2) Non siamo una scuola di tribal style.
In continuazione, in gruppi di facebook ma non solo, sento persone che non hanno mai messo piede nella nostra sala (di danza n.d.t.), affermare che nella Scuola Salimpour si studia solo tribal.
Allerta spoiler: Non è vero. 

Si, è vero che la tribal style bellydance come la conosciamo oggi, non esisterebbe senza Bal Anat di Jamila Salimpour. Ma Jamila non voleva creare un nuovo genere o stile di bellydance. Le danzatrici che si esibivano alla Reinassance Faire tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, erano le stesse danzatrici che si esibivano nei nightclub Medio Orientali di San Francisco.  I costumi, la sede e la presentazione in Bal Anat erano diverse, ma non era uno “stile” diverso. E sebbene essa stessa apprezzi le innovazioni, Jamila ha affermato che per lei se una danzatrice non si esibisce usando musica Medio Orientale allora non è bellydance.

Al momento ci sono molte danzatrici/danzatori nel genere tribal fusion che usano il nome Salimpour nelle descrizioni dei loro corsi e workshop, riconoscendo in tal modo, l’impatto che entrambi i metodi di Jamila e Suhaila hanno avuto sulla loro danza. Forse è qui dove è iniziato l’equivoco che identifica la Scuola Salimpour come tribal. Danzatrici e danzatori non tribal vedono il nome e semplicemente assumono che la scuola in se promuova il “tribal style”. Ma quello che le persone non sanno è che molte di quelle danzatrici e danzatori non studiano con noi da qualche anno.

Vorrei mettere le cose in chiaro: Noi formiamo danzatrici e danzatori perché siano capaci di esibirsi in quanti più stili preferiscono, con un’enfasi sulla capacità di interpretare e danzare la musica Araba.

3) Onoriamo l’eredità, ma anche cambiamo con i tempi.
Quando la tua scuola è una delle più vecchie scuole di bellydance negli Stati Uniti (nel mondo?), la capacità di incassare colpi e adattarsi ai cambiamenti ce l’hai nel sangue. Il nostro curriculum cambia di continuo per integrare le teorie correnti (sul movimento n.d.t.) e gli aspetti kinesiologici.

In qualità di istruttrice principale alla “Mothership” in California, lavoro a stretto contatto con Suhaila per integrare nuovi approcci: le questioni accademiche attuali e le ricerche accademiche più recenti nella medicina dello sport, nell’insegnamento, nel riscaldamento e nel materiale per le lezioni. Niente è statico, Come Suhaila stessa ha detto, se non vai avanti, verrai lasciato indietro.

Ma, ovviamente, onoriamo anche il contributo che Jamila ha portato alla bellydance negli Stati Uniti. Grazie ai nomi dei passi e alla loro categorizzazione possiamo contestualizzarli più facilmente, capire da dove vengono e incarnarli (nel movimento n.d.t.) con una profonda comprensione che va oltre la ripetitiva imitazione meccanica. 

Il nostro curriculum è in costante evoluzione in accordo con i bisogni degli studenti, le ricerche in essere e gli scopi del programma.

4) I nostri studenti non sono cloni.
Un’altra preoccupazione che sento da danzatrici/danzatori che sono curiose/i riguardo alla (scuola n.d.t.) Salimpour ma che, per mancanza di una parola migliore, hanno paura di venire anche solo a una serie di lezioni (come? perché?), è che quando danzatrici e danzatori seguono il programma, perdono la loro individualità.

Quando riguardo le mie vecchie performance, prima di entrare nei livelli più alti del programma Salimpour, vedo molta imitazione. Imitavo Artemis, Aziza, Dina, Mona el Said, Dalia Carella, Rachel Brice e molte altre danzatrici che mi hanno ispirato. Ma adesso quando mi guardo danzare, vedo me stessa.

Ovviamente la mia tecnica è chiaramente molto Salimpour, ma il mio movimento è molto più personalmente definito di quanto fosse dieci anni fa. Sicuramente ho ccreato il mio stile personale, creato e scolpito attraverso anni di formazione non solo alla Scuola Salimpour, ma con numerosi altri istruttori.

Poi ci sono le nostre danzatrici Level 5 che sono autorizzate ad insegnare il Format Salimpour. Nessuna di loro danza come un’altra. Il mio stile è molto diverso da quello di Sabriye Tekbilek, Rachel Rene George, Angelique Hanesworth, Stacey Lizette. Quando le danzatrici percorrono il nostro programma stanno imparando a trovare la propria voce nella musica che sta danzando. Nessuna di noi è qui per danzare come Suhaila. Solo Suhaila può danzare come Suhaila.

E solo tu puoi danzare come te!

Il che mi porta all’ultimo punto.

5) la musica e la cultura Araba sono il cuore del nostro lavoro.
Inerente a ciò, la comprensione del sentimento delle canzoni Arabe classiche, la complessità della poesia, e la storia della bellydance e relative forme è essenziale per ogni danzatrice/danzatore che abbia livelli superiori al Level 1 nei nostri programmi. Anche nel Jamila Level 1 contestualizziamo i passi attraverso la loro origine e carattere. la Basic Egyptian Family proviene dalle danzatrici della Golden Era del cinema Egiziano; la Arabic Family invece incarna i movimenti più riservati che si possono vedere durante una festa in famiglia.

Questo lavoro viene esplorato più approfonditamente nei nostri due workshop principali: The Choreography development (lo sviluppo coreografico) che dura 5 giorni e il Live Music and improvisation (musica dal vivo e improvvisazione) che dura 4 giorni. In questi workshop la musica guida la nostra interpretazione, espressività e scelte di movimento. Durante questi workshop usiamo solo musica Araba (sorpresa!), quindi dobbiamo restare fedeli al sentimento e al contesto originali con cui e in cui queste canzoni furono scritte. Lavoriamo inoltre su come lavorare e interagire con musicisti Arabi, inclusi terminologia, comprensione dei Maqam e etichetta.

Molti non sanno che Suhaila ha lavorato come danzatrice professionista nei nightclub, non solo negli Stati Uniti, anche nel mondo Arabo per più di dieci anni. In questo periodo si è esibita con alcuni dei maggiori cantanti Arabi nel Medio Oriente, inclusi Ahmad Adawiyya, Amr Diab e molti altri. Ancora prima ha viaggiato attraverso il mondo Arabo facendo ricerche e integrando i passi che aveva osservato nel format di sua madre fin dal 1978. Questa non è un’informazione riservata. E’ la fuori da almeno 15 anni. 

Molti cercano, per la propria formazione, danzatrici e danzatori che abbiano una esperienza “di quei posti” full immersion, tuttavia il nostro programma è percepito come troppo “occidentale” o “fusion”. Ma danzare e interpretare la musica Araba (e le altre musiche del Medio Oriente ovviamente) è il cuore del programma Salimpour.

Vieni a vedere di persona.
Se sei curiosa/curioso, vieni a seguire una lezione o un workshop con noi. Non importa quale sia la tua forma, età, genere o esperienza pregressa. Noi accogliamo tutte le danzatrici e danzatori. Diventerai più forte, incontrerai persone incredibili, e farai parte di una comunità globale di praticanti curiose e pensatrici.

giovedì 23 maggio 2019

Harem Suare. Un film, un viaggio!


Il post di questa settimana è un pezzo vecchio, che ho scritto tempo fa su "Harem Suare" di Ferzan Ozpetek. 

Harem Suare
di Francesca Calloni


Presentato nella sezione “Un Certain Regard” al 52º Festival di Cannes, Harem Suare (1999, di Ferzan Ozpetek) è un film che per me, allora studentessa di Lingua e Letteratura Araba all’Università di  Venezia, è stato un viaggio. Una scoperta. Un’analisi. Uno studio. Oggi, nel 2013, a distanza di anni, dopo aver rivisto la pellicola, queste impressioni si ripresentano più vivide che mai.

Harem Suare è prima di tutto un viaggio nella storia. Un film in costume che spazia attraverso mezzo secolo e più della storia della Turchia, nel suo passaggio da capitale di un impero a stato laico moderno. Più voci femminili narrano, raccontano la vita nell'Harem del Sultano. Si intrecciano nelle loro parole le vite della favorita e delle altre, fino al momento della loro “liberazione” per mano di Ataturk. Le scene all'interno del palazzo del Topkapi regalano scorci di vita “familiare”, riportando a un passato sontuoso e opulento che richiama i quadri degli orientalisti, dando però voci ed emozioni a quelle donne fino ad allora congelate nelle tele. La vita dell'Harem che Ozpetek ci propone non è in fondo diversa da quella di tante corti occidentali. L'unica differenza è un secondo centro del potere, reale all'interno dell'Harem. Ed è questo che interessa al regista. L'ascesa della favorita, raccontata in due epoche diverse dalla protagonista stessa e da una donna dell'Harem, permette allo spettatore di avere davanti agli occhi il passato e il presente intrecciati nel viso di Lucia Bosè. 

Il racconto del suo arrivo a palazzo è l'inizio della nuova vita, che la porterà addirittura ad avere la possibilità di essere la madre del futuro Sultano, posizione di grande potere non solo all'interno del Harem, e che permette a noi di scoprire una realtà o un'idea di realtà che pone queste donne al centro, che le presenta come intelligenti, anche se non sempre per scopi nobili, acculturate e combattive, capaci di sognare e di amare. L'abolizione del Sultanato e la liberazione di chi vi era “prigioniera” sconvolgerà la vita delle donne dell'Harem. Ozpetek offre una lettura complessa della realtà dell’Harem, proposta anche dalla scrittrice marocchina Fatima Mernissi, ponendo l’accento sulla “quotidianità” della vita dell'Harem, sfrondandolo da fantasie orientaliste. Per le donne che vi avevano passato la maggior parte della propria vita Harem non aveva solo un'accezione negativa.  Dunque cos'è davvero la “libertà” e soprattutto emancipazione è sempre sinonimo di miglioramento? Ed è questa la domanda che sorge spontanea mentre si vede scorrere la storia con la S maiuscola sullo sfondo delle vicende personali della favorita. 

La seconda parte del film propone uno scorcio di realtà poco considerata: che ne è stato di queste donne “liberate”? Come sono ritornate a un mondo fatto spesso di povertà anche culturale? È stata davvero una liberazione per loro? Nella Turchia degli anni '20 cosa poteva significare per una donna essere stata del Sultano e ora non avere più nessuno che si occupasse di lei? Quale società si disponeva ad accoglierla? Il film traccia alcune possibilità. Dalle più positive: la riunione con la famiglia d'origine e la gioia per questa nuova vita che inizia, a l'offerta di “vitto e alloggio” da parte di loschi figuri alle più giovani e carine, certo preludio di una vita molto diversa da quella dell’Harem. La protagonista offre infine un’opzione diversa, che si lega al mondo della danza orientale. Vestita degli abiti sontuosi del suo passato diventa protagonista di uno spettacolo di varietà, “Harem Suare” appunto e a questo punto sorge una altro interrogativo: è stato davvero un bene? È stato davvero fatto per il bene delle donne? 

Sulle note di chiusura del film mi rendo conto di quanto questo film sia “orientale” nella sua proposta di lettura al femminile della storia, che per quanto con la s minuscola è pur sempre stata storia. 

giovedì 21 marzo 2019

Prima le parole



È da un po’ che non scrivo sul mio blog, non sempre mi è facile trovare il tempo e ancora di più le parole giuste per esprimere i pensieri e le riflessioni che mi vagano nella mente, e così oggi è proprio di ‘parole’ che ho deciso di riprendere a scrivere.
Per chi danza le parole sono spesso superflue, non necessarie, se non addirittura un ostacolo all’espressione più onesta del movimento del corpo. 
Cosa succede però quando abbiamo necessità di parlare e/o scrivere di danza? Le parole passano immediatamente in primo piano, diventano il primo canale di conoscenza e trasmissione di un sapere che non è solo corporeo, diventano quindi importanti tanto quanto i nostri movimenti, la musica, l’abito. Perché allora non ce ne prendiamo cura come facciamo con i nostri abiti, la musica e il nostro “trucco e parrucco”?
In altre aree del mondo le comunità di danzatrici orientali stanno discutendo e si stanno confrontando per cercare di “liberare”il vocabolario della danza orientale dai termini che hanno ancora il sapore di “orientalismo” ed “esotismo” così evocativi, ma anche, spesso, così pregni di colonialismo culturale. 
La danza è un linguaggio universale, ma la danza orientale - o, meglio, le danze del Medio Oriente - sono la rappresentazione della cultura e dell’evoluzione storica, politica e culturale di popoli e zone geografiche diversi. Questo pone noi - insegnanti, danzatrici e allieve, - in una situazione un po’ diversa: siamo rappresentanti, portavoce non solo della nostra creatività e visione artistica, ma anche di questi popoli e soprattutto di queste donne. 
Edulcorare la realtà attraverso l’uso di immagini che si rifanno ad un passato mitico o sovrapporre la danza orientale a immaginari culturali meno problematici pensando così di liberarci dal peso dell’attualità storica, politica e culturale che il Medio Oriente odierno presenta ha spesso l’effetto contrario, relegando la nostra danza ad un livello artistico ed espressivo meno significativo di altre danze che sono invece immerse nel contesto culturale in cui nascono. 
La danza può cambiare il mondo, ma prima deve avere il coraggio di guardare in faccia il mondo che vuole cambiare, non rigettando ciò che è “scomodo” ma, anzi, prendendolo e trasformandolo in uno spunto di riflessione che possa far crescere in noi e nel nostro pubblico una consapevolezza e un rispetto più profondo. Cercherò di spiegarmi meglio. Un po’ di tempo fa è stato condiviso su facebook un video di una danzatrice in un club egiziano che mostrava la nuova “tendenza” della danza orientale. La pubblicazione di questo video ha scatenato spesso commenti poco edificanti verso la danzatrice, il costume e l’atteggiamento della performer. Pochi si sono però soffermati sul motivo dell’affermazione di questa nuova tendenza, o su come promuovere una immagine alternativa. 
Non possiamo decidere di considerare l’Egitto patria della danza orientale se non siamo disposti a vedere che esiste anche un’altra realtà, come quella esposta qualche anno fa da un bellissimo documentario "Dancers" di Celame Barge che illustrava la vita delle danzatrici orientali non famose. Le umiliazioni, le difficoltà e lo stigma che queste donne devono vivere ogni giorno dovrebbe farci riflettere, perché noi rappresentiamo ANCHE loro, volenti o nolenti, e solo se troviamo le parole giuste per contestualizzare gli avvenimenti e gli eventi che l’attualità ci presenta ogni giorno potremo fare di questa danza un linguaggio potente e non solamente una forma di intrattenimento auto-relegata nell’evocativo ed esotico. 
Quando cerchiamo di depurare questa danza dai suoi aspetti più controversi il rischio che corriamo è proprio quello di spogliare questa danza dei suoi aspetti più identitari e arricchenti, quegli stessi aspetti che la rendono così bella e unica.